Jonathan Livingston è un gabbiano che abbandona la massa dei comuni gabbiani per i quali volare non è che un semplice e goffo mezzo per procurarsi il cibo e impara a eseguire il volo come atto di perizia e intelligenza, fonte di perfezione e di gioia. Diventa così un simbolo, la guida ideale di chi ha la forza di ubbidire alla propria legge interiore; di chi prova un piacere particolare nel far bene le cose a cui si dedica. E con Jonathan il lettore viene trascinato in un’entusiasmante avventura di volo, di aria pura, di libertà.
Incipit
Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato.
A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per conto suo: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscio lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo… d’un paio… di centimetri… quella… penosa torsione e… D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù.
I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.
Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.
“Per decidere se comprare un libro, aprilo a pagina 69″ (McLuhan)
“Anche adesso, se ti va”.
“Voglio imparare a volare in quel modo” disse Jonathan, e una strana luce brillava nei suoi occhi. “Dimmi cosa devo fare”.
Ciang parlò con lentezza, fissando attentamente il suo giovane interlocutore. “Per volare alla velocità del pensiero, verso qualsivoglia luogo,” disse “tu devi innanzitutto persuaderti che ci sei già arrivato”.
Il segreto, secondo Ciang, stava tutto qui: Jonathan doveva smettere di considerare se stesso prigioniero di un corpo limitato, un corpo avente un’apertura alare di centodieci centimetri e i cui itinerari potevano venir tracciati su una carta nautica. Il segreto consisteva nel sapere che la sua vera natura viveva, perfetta come un numero non scritto, contemporaneamente dappertutto, nello spazio e nel tempo.
Jonathan si applicò, furiosamente, giorno dopo giorno, da prima dell’alba a dopo la mezzanotte. Ma per quanti mai sforzi facesse, non riusciva a spostarsi di un’unghia.
“Lascia perdere la fede!” ripeteva sempre Ciang. “Non t’è mica servita, la fede, per volare. T’è bastato l’intelletto: capire la faccenda. E qui è la stessa cosa. Su, riprova”.
Poi un giorno, sulla spiaggia, a occhi chiusi, concentrato in se stesso, Jonathan afferrò, in un baleno, quel che Ciang voleva dire. “Ma è vero! Io sono un gabbiano perfetto, senza limiti né limitazioni!” E provò un grande brivido di gioia.
“Bravo!” gli disse Ciang, e il suo tono era di vittoria.
Jonathan riaprì gli occhi. Si trovava, con l’Anziano, loro due soli, da qualche altra parte.