Una saga familiare del nostro secolo in cui si rispecchiano la storia e il destino di tutto un popolo, quello cileno, nei racconti delle donne di una importante e stravagante famiglia. Un grande affresco che per fascino ed emozione può ricordare al lettore, nell’ambito della narrativa sudamericana, soltanto “Cent’anni di solitudine” di García Márquez.
Incipit
Barrabas arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabas era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva – dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro – il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero, durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastian, alla quale assistette con tutta la famiglia. In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tramare di ribrezzo Clara.
“Per decidere se comprare un libro, aprilo a pagina 69″ (McLuhan)
Lui si era chinato, l’aveva raccolto e aveva visto una bambina senza occhi che lo chiamava papà. Si era svegliato in angoscia ed era rimasto di cattivo umore per tutta la mattinata. A causa del sogno, si era sentito inquieto, molto prima di ricevere la lettera di Férula. Entrò in cucina per fare colazione, come tutti i giorni, e vide una gallina che andava beccando le briciole sul pavimento. Le tirò una pedata che le aprì la pancia, lasciandola agonizzante in un alone di trippe e di piume, starnazzante in mezzo alla cucina. Questo non lo calmò, anzi, aumentò la sua rabbia e sentì che cominciava a soffocare. Montò a cavallo e si recò al galoppo a sorvegliare gli armenti che stavano marchiando. In quel momento giunse a casa Pedro Secondo Garcìa, che era andato alla stazione di San Lucas a fare una commissione ed era passato dal paese per prendere la posta. Portava la lettera di Férula.
La busta aspettò tutta la mattina sul tavolo dell’entrata. Quando Esteban Trueba arrivò, andò direttamente a fare il bagno, perché era coperto di sudore e di polvere, impregnato dell’odore inconfondibile delle bestie terrorizzate. Poi si sedette alla sua scrivania a fare dei conti e ordinò che gli servissero da mangiare su un vassoio. Non vide la lettera della sorella fino a notte, quando percorse la casa, come faceva sempre prima di andare a letto, per controllare che le luci fossero spente e le porte chiuse. La lettera di Férula era uguale a tutte le altre che aveva ricevuto da lei, ma quando la prese in mano seppe, ancora prima di aprirla, che il suo contenuto gli avrebbe cambiato la vita. Ebbe la stessa sensazione di quando aveva preso in mano il telegramma in cui sua sorella gli annunciava la morte di Rosa, anni prima.
L’aprì, sentendo che gli pulsavano le tempie a causa del presentimento. La lettera diceva brevemente che donna Ester Trueba stava morendo e che, dopo tanti anni trascorsi a curarla e servirla come una schiava, Férula doveva sopportare che sua madre neppure la riconoscesse, mentre chiamava giorno e notte suo figlio Esteban, perché non voleva morire senza vederlo. Esteban non aveva mai amato realmente sua madre, né in sua presenza si sentiva a suo agio, ma la notizia lo lasciò trepidante. Capì che ormai non gli servivano più i pretesti sempre nuovi che inventava per non andarla a trovare, e che era giunto il momento d’intraprendere la strada del ritorno alla capitale e di affrontare per l’ultima volta quella donna che era presente nei suoi incubi, col suo rancido odore di medicine, le sue tenui lamentele, le sue interminabili preghiere, quella donna sofferente che aveva popolato di proibizioni e di terrori la sua infanzia e gravato di responsabilità e di colpe la sua vita di uomo.