Mara è una giovane di Monteguidi, piccolo paese della Val d’Elsa, che all’indomani della Liberazione conosce il partigiano Bube, eroe della Resistenza, e se ne innamora. “La ragazza di Bube” segna una profonda cesura nella narrativa italiana del dopoguerra: benché ispirato a una vicenda realmente accaduta, il romanzo si arricchisce di elementi psicologici e lirici superando le istanze neorealiste, tanto per il linguaggio quanto per il rifiuto dei dogmatismi ideologici. “Il romanzo” sostiene infatti Cassola “viene prima di ogni interpretazione della realtà, è la ricerca continua della verità degli uomini”.
Incipit
Mara sbadigliò. Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e poi la sera lo avrebbe raccontato alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non era vero. E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio.
Le piacque talmente l’idea che le venne una gran voglia di farlo. Ma poi indugiò a guardarsi nello specchio ovale del cassettone. Si mise le mani sotto i capelli, per vedere come sarebbe stata se li avesse avuti gonfi. Il vetro era scheggiato per traverso, sì che non ci si poteva specchiar bene: la faccia non c’entrava tutta.
Dopo qualche minuto, scese in cucina.
“Dove vai?” le gridò dietro il fratello.
“Sto qui. Uggioso”.
“No, tu vai fuori” piagnucolò il fratello. Era incredibile la paura che aveva di restar solo.
“Non vado fuori, sto qui”. Si era messa alla finestra.
La finestra dava su uno spiazzo tra le case. In fondo lo spiazzo si restringeva in una specie di vicolo, che immetteva nell’unica strada del paese.
Mauro era seduto sullo scalino della casa di fronte.
“Ehi! Non si sei andato a lavorare?” lo apostrofò Mara.
“Per decidere se comprare un libro, aprilo a pagina 60″ (McLuhan)
“E tu che gli dài in cambio? Io, se avessi la fidanzata, e mi chiedesse un regalo, le direi: subito bambina, prima però voglio qualcosa io”.
“Che cosa?”
“Vai là che hai capito. Be’, io bisogna che me ne vada. Accidenti al lavoro” aggiunse con tono sconsolato.
Mara riprese a girellare. Le sembrava che gli uomini la guardassero con insistenza e ammirazione. A un tratto si accorse di essere seguita. Si fermò davanti a una vetrina. Si fermò anche il giovanotto. “Uff!”, pensò Mara. Che la guardassero, le faceva piacere, ma che le venissero dietro, le seccava e le faceva quasi paura.
Respirò sollevata vedendo Bube; e si affrettò ad andargli incontro.
I tacchi alti cominciavano a stancarla: e poi faceva caldo, e non c’era più niente da vedere. Sedettero su una panchina di cemento nel giardinetto in mezzo alla piazza.
“Che ore sono?”
“Le undici e mezzo” rispose Bube.
“Uff, che noia. Non vedo l’ora di essere a mezzogiorno”.
“E perché?”
“Per andare a mangiare”.
“Hai già fame?”
“No, fame no… Ma non vedo l’ora di essere in trattoria”.
“Si va in quella dove ho mangiato ieri” dichiarò Bube.
“Insomma, qui è una noia, facciamo qualcosa” disse Mara dopo cinque minuti.
“Ma se hai detto che t’eri stancata a camminare. Aspetta, m’è venuta un’idea: andiamo al caffè”.
Al caffè stentarono a trovare un tavolino libero, perché era arrivata allora la corriera di Firenze, e parecchi viaggiatori s’erano piazzati lì, con le valige e i fagotti.